giovedì 18 aprile 2013

Le (vere) ragioni di Renzi per dire NO

Ci sono ragioni per il no di Renzi a Marini che sono squisitamente politiche e diverse da quelle che il sindaco di Firenze voglia farci credere.
Ha ragione, ad esempio, quando sostiene che l'ex presidente del Senato non rappresenta il paese odierno. Condivisibile la critica nei confronti di una figura di vecchio stampo, non tanto per l'età anagrafica, quanto per quella politica e per il retaggio di un 'certo tipo di politica' vecchia, seppur ancora non decrepita, che non farebbe gli interessi del Paese.
Ha ragione quando punta il dito contro Bersani bollando l'operazione "Lupo marsicano" come una tattica  del tutto sviluppata a fini di governance interna da parte del Segretario democratico.
Ma in questo senso ,e proprio in questi termini, Renzi commette l'errore di esporsi ad una analisi e ad una interpretazione meno generiche e forse più adatte al core del suo discorso: gli equilibri interni al Pd dal punto di vista dei moderati cattolici di cui si è fatto e si sta facendo promotore.
Inoltre c'è da registrare, almeno al momento, una certa convergenza tra gli obiettivi dei dalemiani e quelli dei renziani che è quella di far fuori la dirigenza attuale (bersaniano-franceschiniana) per riavviare un upgrade strutturale e gestionale del Pd.
 
Renzi infatti 'deve' silurare Marini perchè quest'ultimo rappresenta l'espressione di un'area del Pd in diretta competizione con il sindaco di Firenze. Lo si evicne persino dall'approccio e dal passo dialettico di Renzi che ieri sera a Le Invasioni Barbariche si è soffermato per ben due occasioni sulla cattolicità sua e di Marini.
In ballo per l'enfant prodige della Dc post-Mani pulite c'è la leaderhip moderata attraverso la quale conquistare quella dell'intero Pd. Un percorso possibile grazie al malcontento e al disagio socioeconomico che stanno caratterizzando il Paese.
Da un lato Renzi cavalca, sulla scia dell'approccio cristiano-sociale, il disagio cercando di filtrandone gli elementi squisitamente prepolitici e usando il grimaldello anticasta in funzione non solo critica ma anche, e soprattutto, positiva e propositiva. Dall'altro offre e propone agli scontenti e ai non facinorosi (che sono la stragrande maggioranza) una serie di appigli concettuali e di strumenti (politici e post politici) per sperare in un futuro migliore, puntando ad affrontare la crisi sociopolitica e socioeconomica non attraverso la catarsi del passaggio distruzione/ricostruzione ma attraverso un approccio mutuato dagli Usa e in particolare da tre figure di forte ascendente come JFK, suo fratello Robert e, ovviamente, Obama. Guardare al futuro avendo il coraggio di rompere con il passato nell'idea unidirezionale di forward, dell'avanzamento senza marce in dietro, del movimento continuo, però verso un traguardo visibile, condivisibile e per questo raggiungibile, fuori da ogni ragionevole dubbio.
 
In questo senso va individuata l'aspra critica che Renzi muove a Marini e ad un'ampia fetta dei dirigenti di area moderata. In termini tattici la scelta di Bersani e l'accordo con Berlusconi rappresentano per Renzi il migliore punto di partenza perchè legittima la considerazione: "questo Pd, così come è, è morto!" e resetta la memoria dell'opinione pubblica sulla sua presunta vicinanza a B.: "Bersani sarà pure peggio di Renzi se alla fine per il Colle ha fatto l'inciucio con B., a differenza di Renzi".
Non si tratta, però, di una corsa alla frantumazione del Pd, ma dell'esatto contrario e della condivisione di un medesimo obiettivo di lungo periodo individuato dallo stesso Bersani e dal suo entourage: creare un mastodontico contenitore politico che raccolga al suo interno i moderati cattolici, i riformisti e la sinistra. Solo che nei progetti del Segretario il nuovo Pd avrebbe dovuto ospitare una componente moderata renziana e una componente di sinistra vendoliana guidate con opportuna saggezza ma assoluta determinazione dallo stesso Bersani.
In realtà, al di là del leader, si tratta di un progetto di lungo corso, santificato in via di principio da Prodi e dallo stesso D'Alema, avviato con l'Ulivo nel 2006 e rilanciato poi nel 2008 quando con il neonato Pd veltroniano (quello del 33%) sembrava si fosse ad un passo dalla sua creazione. Una vasta area di governo con i partiti della sinsistra radicale fuori dall'agone politico, con l'ala diessina meno moderata, quella di Sinistra Democratica, nata già morta e un alleato, per quanto convenientemente piccolo come l'IdV, moderato ma con un certo appeal antipolitico che riuscisse a captare malcontento (quello più annacquato) antidiessino e antidemocristiano facendo - in teoria - da margine alla montante ondata antipolitica del Vaffaday.
Si tratta negli asupici dei suoi ideatori di un molosso politico finalmente al passo con i tempi, ovvero multiforme, multiplurale, multipolare e di fatto buono per tutte, o quasi tutte, le stagioni.
Un progetto che non è naufragato e probabilmente non naufragherà con l'abbattimento di Bersani (vivaddio il Pd è l'unica formazione non lideristica nè personalistica).
In questo progetto Matteo Renzi è di fatto uno dei due Dioscuri che traghetteranno il Pd in una nuova era che, a dirla tutta, avrà molto di nuovo ma anche tanto della così vituperata vecchia politica. L'altro, che piaccia o no, è Massimo D'Alema che ancora ieri sera in assemblea Pd veniva dato come migliore alternativa a Marini per il Quirinale.
D'altra parte Renzi e D'Alema non hanno mai dissimulato la propria reciproca malsopportazione, ma chi meglio di due acerrimi avversari per costituire un asse, informale, e porre fine alla prima fase del Pd? Poi a ciascuno il suo: il primo a guidare il nuovo Pd (o il soggetto che lo sostituirà) e il secondo a tramare nell'ombra cercando di assassinare (politicamente) il leader del momento dopo aver contribuito fattivamente a farlo diventare tale.

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